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MUSICA OSTICA > Andrea


Ciò che è ostico può e deve diventare normale, addirittura canonico, col ripetersi della fruizione

Òstico: - agg. [dal lat. hostĭcus «ostile, nemico», der. di hostis «nemico»] (pl. m. -ci), letter. – Spiacevole, ripugnante al gusto: bevanda di sapore ostico. Più spesso in senso fig., di cosa che riesce sgradita, in quanto non congeniale, difficile a sopportarsi e sim.

 -          [ò-sti-co] agg. (pl.m. -cif. -che) Sgradevole, duro, difficile.

Queste definizioni oggettive prese dai principali dizionari esistenti non tengono conto del passo successivo al primo impatto: tutto ciò che è ostico (dove sia l’accento lo avrete ormai capito) può e deve diventare normale, addirittura canonico, col ripetersi della fruizione. Questo vale per qualsiasi tipologia di arte o situazione, o persona o pensiero, o cibo o vino. O tutto. Anche perché ciò che il cervello percepisce inizialmente come ostico, una volta compreso, può racchiudere in sé concetti spesso salvifici. La casistica è pressoché infinita, ma rimanendo nel nostro mondo musicale, alcuni esempi possono essere presi in considerazione per arrivare alla dimostrazione pratica di quanto sopra descritto. Eccoli di seguito, come sempre in ordine sparso e senza distinzioni di sorta.

 

Scum”, album dei Napalm Death uscito nel 1987. Il capostipite del grindcore, genere che successivamente ha dato vita ad altri sottogeneri di maggior successo commerciale. Mezz’ora di turbinio sonoro, violenza e growls, distorsioni e velocità massima: 28 tracce ai limiti (tanti limiti)  tra cui la famosissima You Suffer, brano di un secondo appena. Siccome l’arte deve sempre suscitare qualcosa, provocazione compresa, questa è Arte allo stato puro.

 

Metrodora” e “Cantare La Voce”, album di Demetrio Stratos usciti, rispettivamente, nel 1976 e 1978. Sperimentazione vocale al massimo livello, insuperata ancor oggi. Demetrio è stato LA voce degli anni Settanta, e non solo italiani. Arrivò alla (breve) fama grazie alla sua militanza nei Ribelli, ma la sua vita era altrove: fondò, per questo, gli Area – International Popular Group, insieme al batterista Giulio Capiozzo. Sperando che possiate (e dobbiate) già conoscerli (quindi tralasciando la spiegazione dell’impatto che ebbero sulla musica tutta), Demetrio arrivò a concepire questi due dischi, nonché a varie rappresentazioni dal vivo, scavando nelle proprie radici greche e,  allo stesso tempo, andando oltre i confini delle possibilità vocali. Diplofonie e triplofonie, lamenti d’Epiro e segmenti di genialità varie, criptomelodie e flautofonie, egli è arrivato a dimostrare tantissime possibilità che la voce-strumento può arrivare a dare. Chissà dove sarebbe potuto arrivare se non fosse morto prematuramente nel 1979. Insomma: l’assoluto.

 

Allelujah I” e “Allelujah II”, opere di Luciano Berio, rilasciate nel 1956 e 1958. Forse il più impattante compositore italiano del Novecento; senz’altro non il più famoso (per tale riconoscimento dovremmo andare dalle parti di Ennio Morricone), ma sicuramente colui che fece crescere a dismisura noi italioti agli occhi del pianeta Terra e dei suoi popoli. Queste due composizioni orchestrali di livello sconfinato, inascoltabili per la maggior parte delle persone, mi fecero capire che il futuro è sempre (sempre) lì ad attenderci e che la vera bellezza va oltre i canoni che la società gli impone. Definire prolifico il Maestro Berio sarebbe banale, vista la vastità della sua opera; più esattamente lui era Musica tutto il giorno, tutti i giorni, come fosse una meravigliosa madre quotidianamente partoriente. Di capolavori.

 

Metal Machine Music”, album di Lou Reed, uscito nel 1975. Opera prosecutrice del Rumorismo futurista degli anni Dieci, andò a colpire l’opinione pubblica in quanto realizzata da un musicista rock, uno dei più importanti e seminali. Reed attinse a piene mani dalla concettualità della drone music elettronica di LaMonte Young, andando a realizzare uno dei più estremi esempi di musica cacofonica, tramite l’utilizzo di ininterrotti feedback chitarristici. Ritirato dal mercato dopo sole tre settimane, influenzò centinaia di artisti, facendo valere la teoria che la paura, spesso, si trasforma in abitudine, o prassi. Melodia azzerata, assenza ritmica, nessuna struttura: solo dadaismo anni Settanta.

 

Free Jazz: A Collective Improvisation”, album di Ornette Coleman uscito nel 1961. Improvvisazioni lunghissime, dissonanze varie, oltre il jazz fin lì conosciuto: ognuno dei musicisti coinvolti viaggia (è il caso di scriverlo) per la propria strada, o meglio, per il proprio sentimento. Un doppio quartetto, uno per canale, che suonava in contemporanea “cose” diverse. Non si tratta di caos, ma di un capolavoro che andrà a determinare i retaggi culturali degli anni a venire. In sostanza, Coleman, sassofonista, raggiunse il nucleo di quell’universo, evidenziando ai fruitori il vero significato del jazz. Di fatto fu l’inventore del sottogenere free jazz. Libertà, ispirazione, gioia.

Andatevi a cercare il resto, voi afflitti dal morbo della curiosità (che tiene in piedi il mondo). Abbracci diffusi.


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Autore : Andrea Pintelli, Giu/2025