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MUSICA OSTICA > Stefano |
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Li possiamo chiamare “acquisti sbagliati”. |
Quella di comprare dischi è stata, in una certa fase della mia vita, un'attività irrinunciabile. Erano i primi anni 70, anni del liceo, e, vivendo in una cittadina di provincia, non era facile accaparrarsi le ultime uscite, perché proprio non si trovavano nei due o tre negozi di dischi locali. Così, al sabato pomeriggio, si prendeva il treno e si andava nella grande città: la meta era il negozio Ricordi, dove, miracolosamente, si potevano trovare negli scaffali quantità inimmaginabili di dischi, più o meno tutti quelli di cui si leggeva nelle recensioni delle nostre riviste o di cui si ascoltava alla radio. Non tutti, veramente: tanto per fare un esempio, “After the Gold Rush” di Neil Young era introvabile ed ho dovuto agognarlo per parecchio tempo prima di vederlo finalmente esposto. Non c'erano molte fonti di informazione sui dischi in uscita all'epoca: da una parte le recensioni su riviste come 'Ciao 2001' o 'Super Sound' (solo per citare le testate più note), dall'altra parte gli ascolti alla radio ('Per Voi Giovani', 'Popoff') accompagnati dai commenti, benevoli o negativi, dei presentatori. Oppure, a prescindere da commenti e recensioni, occorreva tener presente che una nuova uscita del vostro beniamino era comunque un disco da acquistare. Così decidevi di comprare il fatidico disco, impegnando in un colpo solo quasi tutta la paghetta settimanale (che, se non ricordo male, ammontava a 5.000 lire). Considerando che un disco (singolo) costava circa 3.500 lire, si può ben capire l'importanza e la centralità che l'acquisto assumeva: un acquisto sbagliato lo avresti rimpianto per parecchio tempo. C'erano poi pochi modi di liberarsene: i mercatini dell'usato erano ancora di là da venire ma lo si poteva, talvolta, scambiare con qualche amico, che, immancabilmente, cercava di rifilarti un bidone, magari un bel disco, sulla carta, ma completamente smangiato dalla puntina del giradischi. E poi, in linea di massima, i brutti dischi non li voleva nessuno. Insomma, alla fine, per un motivo o per un altro, quegli acquisti “sbagliati”, per fortuna molto rari, sono rimasti nel mio scaffale, ed ormai ci restano, visto che rappresentano un particolare momento storico della mia vita. Vi sono diverse declinazioni di un acquisto sbagliato: sono dischi che mi hanno deluso, fin dal primo ascolto, oppure dischi “inascoltabili”, o perché completamente fuori dal genere che all'epoca seguivo, anche a causa di una promozione discografica che talvolta cercava di falsare le carte, oppure per una oggettiva scarsezza di contenuto e qualità. Oppure più semplicemente perché difficili: comunque si tratta sempre di dischi “ostici”, ovvero dischi che raramente riuscivo ad ascoltare fino alla fine. Uno dei primi dischi “ostici” che ho comprato appena uscito, e tentato di ascoltare, è stato “Birds of Fire”, album del 1973 della Mahavishnu Orchestra, fondata dal chitarrista John McLaughlin. Un disco davvero complicato, che era però errato definire “acquisto sbagliato”: era piuttosto musica molto avanti rispetto ai tempi, uno dei primi ad inaugurare quel filone a metà strada fra rock e jazz, che successivamente avrebbe assunto il nome di “fusion”. Un disco obiettivamente straordinario, che vantava la presenza di musicisti di primissimo piano, fra i quali il batterista Billy Cobham e il tastierista Jan Hammer, oltre, naturalmente, a McLaughlin, considerato uno dei più grandi chitarristi viventi. Ero immaturo a quei tempi, e non riuscivo ad apprezzare questo tipo di musica, da me considerata molto tecnica e fredda. Ma oggi, che sono cresciuto e ho ascoltato e continuo ad ascoltare, musica “difficile”, lo trovo un disco davvero coinvolgente e sono contento di averlo comprato. Altro acquisto sbagliato era stato un disco che aveva tutte le garanzie di essere assolutamente imperdibile: “Fifth” (o “5”) dei Soft Machine, considerati uno dei gruppi più significativi della cosiddetta scuola di Canterbury che aveva contribuito molto alla nascita del genere “progressive”. Mi aveva convinto ad acquistarlo la sola presenza di Elton Dean, sassofonista appartenente alla cerchia di alcuni musicisti della scena prog inglese che mi intrigavano molto, come il pianista Keith Tippett e il trombettista Mark Charig, entrambi co-protagonisti di “Islands”, capolavoro dei King Crimson, e di “Septober Energy” dei Centipede, straordinario esperimento di musica totale. Purtroppo, l'ascolto di “Fifth” fu davvero difficile, erano i primi Soft Machine che ascoltavo e di sicuro non era l'album più rappresentativo della band. Presentava ben poco di interessante dal mio punto di vista e non aveva nulla da spartire con il progressive rock, nonostante le premesse: era free jazz, in gran parte improvvisato, molto freddo e distaccato; è considerato, fra l'altro, uno dei peggiori album del gruppo. Tuttora, questo disco dei Soft Machine resta per me inascoltabile, insieme a quelli successivi. Credo che la parte più interessante della carriera di questa band si sia fermata al terzo disco “Third”.
Termino questa carrellata con il caso più eclatante, e
più deludente per me: “Earthbound” dei King Crimson, album uscito nel
1972, subito dopo il grande capolavoro “Islands” che avevo consumato sul
giradischi. Si trattava di un disco dal vivo, registrato durante un tour
negli USA, a quanto pare su una cassetta, a bassissima fedeltà. Era
inascoltabile, di qualità audio pessima (e poterlo dire in quegli anni
era di per sè paradossale, perchè i dischi si ascoltavano di norma su
impianti stereo davvero minimali). Ma non era solo l'audio ad essere
scadente, tutto il disco era senza senso, in gran parte una accozzaglia
di improvvisazioni, non sempre ben riuscite, palesemente pubblicato per
puri motivi contrattuali. Ricordo vari tentativi di ascolto, ma quasi
sempre mi fermavo al primo brano, che comunque valeva da solo
l'acquisto: “21st Century Schizoid Man”, suonato dal vivo in
modo egregio dai King Crimson già in fase di smembramento. L'anno dopo,
sarebbe uscito “Lark's Tongues in Aspic”, grandioso album della
rinascita della band e del suo leader Robert Fripp. Ma, purtroppo, non
erano più i Crimson che mi avevano ammaliato con i loro primi quattro,
fantastici album. |
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Autore : Stefano Sorrentino, Giu/2025 |
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