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CAT POWER

IL CONCERTO ALLA ROYAL ALBERT HALL SENZA VIRGOLETTE



Non è un momento musicale quello che per me è il simbolo di questo disco: arriva appena prima che Cat Power attacchi Ballad of a Thin Man quando un buontempone, per ricreare alla perfezione il concerto a cui si ispira il disco, urla “Judas” a un volume alto abbastanza da farsi sentire dalla cantautrice. Lei aspetta qualche secondo e risponde “Jesus”, svelando il suo amore per Bob Dylan nel caso non fosse stato sufficientemente rivelatore lo svolgersi del concerto fino a quell’istante.

Occorre adesso fare un deciso passo indietro: nel 1966 Bob Dylan si prende la briga di, per dirla nel modo più chiaro possibile, cambiare il corso della musica leggera. Smette i panni del folksinger, si nasconde dietro un paio di Rayban scuri, ingaggia The Hawks, un gruppo di clamorosi ma praticamente sconosciuti musicisti canadesi capitanati dal recentemente scomparso Robbie Robertson (che poi diventeranno famosi in tutto il mondo semplicemente come The Band), si compra una Fender elettrica e parte con un tour di spettacoli divisi esattamente in due; la prima parte acustica, solo lui e la sua chitarra: è esattamente quello che il pubblico si aspetta e l’accoglienza è trionfale. La seconda parte è un’altra storia: gli strumenti diventano elettrici, le canzoni spigolose e urlate e in un batter d’occhio Dylan diventa il traditore, il nemico. Le contestazioni sono una costante di tutto il tour ma è in Inghilterra che raggiungono l’apice. I boooh iniziano alla prima nota elettrica e non smettono fino alla fine del concerto, la tensione è continua e Dylan inizia una specie di battaglia psicologica coi suoi contestatori senza arretrare di un millimetro.

L’episodio che è poi passato alla storia succede il 17 Maggio 1966 quando uno spettatore particolarmente arrabbiato, tra i mille improperi che arrivano sul palco, gli urla “Judas!”; la tensione è insopportabile, Dylan si avvicina al microfono e quasi distratto gli risponde “non ti credo”, lascia passare qualche secondo, alza il tono della voce e aggiunge “sei un bugiardo!”; si gira verso la batteria mentre tiene il tempo con una sorta di balletto sul posto e ordina agli Hawks: “Play it fucking loud!”, suonate forte cazzo, prima di iniziare una versione di Like a Rolling Stone che   passerà alla storia.

L’episodio prende i contorni della leggenda metropolitana fino a quando cominciano a circolare i primi bootleg. C’è però un errore: i nastri riportano il titolo Live at the Royal Albert Hall mentre, lo si scoprirà solo molti anni dopo grazie ai numerosi reperti video recuperati, l’esibizione si tenne in realtà alla Free Trade Hall di Manchester e la Columbia, dopo lunghe trattative con Dylan, lo pubblicherà come disco ufficiale solo nel 1998 inserendolo nelle famigerate Bootleg Series, lasciando il titolo del bootleg ma chiudendolo tra due paia di virgolette per dar conto della storia quasi mitologica che da decenni lo circonda.

Torniamo ai giorni nostri: Chan Marshall in arte Cat Power alla fine del 2022 ha quasi portato a termine il tour del suo terzo disco di cover (sugli undici complessivamente pubblicati); dal management la informano che c’è la concreta possibilità di suonare il 5 Novembre alla Royal Albert Hall, tra l’altro curiosamente subito dopo un concerto a Manchester. In quell’istante il pensiero dell’artista americana, devota di Dylan praticamente da quando ha memoria, non può che andare a quel concerto. Da quell’idea nasce l’album uscito da qualche settimana, Cat Power sings Dylan: the 1966 Royal Albert Hall Concert, la registrazione del concerto in cui Cat Power ripropone il concerto con la stessa scaletta e con la stessa divisione tra le due parti, la prima acustica e la seconda elettrica. Mettere mano a un monumento del genere è sempre un problema: rimanere fedele alla registrazione originale rischiando di non aggiungere niente che sia degno di nota o stravolgere le interpretazioni con l’altissima probabilità di combinare un disastro?Cat Power sceglie una terza via, comunque ben lontana dall’essere un compromesso: dar vita a un individuo a sé stante, un individuo che ha lo scheletro costruito da Dylan ma la carne, i muscoli e il sangue sono di Cat Power, modellati da una vita che molto spesso l’ha messa a durissima prova, tra matrimoni falliti, problemi di salute fisica e psichica che per molti anni le hanno impedito di mantenere le promesse fatte con i suoi splendidi dischi di fine anni Novanta. La confidenza che esiste tra i due è forse la massima che una artista al di fuori dell’entourage di Dylan può avere: si sono incontrati qualche volta on the road, Dylan l’ha invitata a un suo concerto a Santa Barbara durante il quale ha suonato I Believe in You che non cantava dal vivo da anni, inserendo nel la frase che Cat Power aveva utilizzato nell’incisione della versione del brano finita in Jukebox (tanto per cambiare un disco di cover), se può Dylan si preoccupa di farle avere i pass anche per i concerti sold out. È forse proprio questa frequentazione a distanza a fornire a Cat Power i mezzi per riuscire alla grande in una missione tanto difficile: dimostra di avere ben chiare l’intenzione e l’importanza dell’album del ‘66 e le rielabora con una intensità e una sensibilità quasi miracolose. Le circostanze che portano ai due concerti sono molto diverse e per certi versi agli antipodi: Dylan è nel pieno di una lotta contro buona parte dell’universo musicale e di cui solo molti anni dopo si capirà l’importanza, Cat Power è alla fine di un tunnel lungo e buio, al termine del quale intravede i contorni di casa; che poi la sua casa sia su di un palco a cantare le canzoni del suo faro artistico è un altro paio di maniche. Non a caso pochi mesi dopo annuncerà via Instagram di essere finalmente sobria.

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Il disco è forse il mio preferito del 2023 grazie alla capacità della cantautrice di arricchire con la sua voce femminile ma non troppo le canzoni del miglior autore di musica leggera che abbia calcato questa Terra. La parte per me più riuscita è quella elettrica: se nel disco del 1966 il contributo di The Band rendeva i pezzi di Dylan più spigolosi e rabbiosi che mai, il gruppo che accompagna la cantautrice della Georgia gioca tutto sul gusto e sulla misura, arricchendo le interpretazioni con suoni molto più americani e rotondi ma con un costante retrogusto di urgenza e irrequietezza irresistibile: sembra quasi di essere all’interno di un film di Juliette Lewis, non a caso una attrice molto legata al mondo del rock tanto da diventare per un breve periodo la frontwoman di una band chiamata Juliette and the Licks.

È al contempo un album appena uscito ma che profuma di vinile, perfetto da regalare agli amanti di quel genere ormai in disuso che per comodità chiamiamo rock, liberandoci dall’imbarazzo di dover far scartare l’ennesima raccolta dei Queen. L'etichetta è la Domino Records e, oltre che sulle piattaforme di streaming, lo si trova sia in doppio CD che in doppio LP. Davvero consigliatissimo

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Autore : Federico Piva, Gennaio 2024